Articolo di Anna Mariani Ducasse
Tra dipendenza e abuso il confine a volte può divenire sottile e fluttuante.
Spesso, quando vogliamo a tutti i costi rimanere aggrappati al nostro/a compagno/ genitore, figlio/amico/ , ci lasciamo abusare sopportando e tollerando calunnie, denigrazioni, umiliazioni psichiche e fisiche.
Siamo stanchi, sfiniti, prosciugati ma resistenti alla minaccia della solitudine, dell’abbandono o del vuoto che si creerebbe senza questa “sick soup” che ci somministramo vicendevolmente e che infliggiamo a noi stessi per la nostra idea di “sopravvivenza” emotiva.
E’ molto difficile uscire da una relazione basata su uno stato di dipendenza, nella quale l’io bambino è in figura, rispetto ad una relazione dove i due adulti s’incontrano, si amano e poi possono decidere di separarsi.
Nella dipendenza affettiva s’installa quel tipo di meccanismo comportamentale di codipendenza dove i soggetti s’identificano nel malfunzionamento della relazione, generando e nutrendo costantemente quella sofferenza che loro stessi combattono.
Vittima e carnefice
Quando si arriva all’eccesso, spesso uno dei partner assume la tendenza a comportamenti di tipo perverso narcisista e l’altro di vittima.
La relazione affettiva viene spesso confusa dal tiranno come dominio e possessione dell’altro. Con l’alibi di voler proteggere, educare, “amare” si esercita costantemente un controllo ossessivo, considerando l’altro come un oggetto da plasmare, non completo, da ridefinire e usare a seconda dei suoi umori e delle sue esigenze.
Per la vittima la relazione viene vissuta invece come sottomissione e sacrificio di se stessa, l’unico modo di “amare “che crede possibile.
La clinica patologica evidenzia che dove c’è troppo Io c’è la follia.
Già gli antichi greci, enunciano una delle loro verità caposaldo con Eschilo: γνῶθι σεαυτόν (gnōthi seautón) «conosci te stesso ed abbi la consapevolezza di essere inferiore a Zeus».
Il senso della misura è fare spazio all’altro, un Io smisurato è incistato in se stesso, l’altro è sentito come minaccia piuttosto che un soggetto col quale interagire, è un Io che finisce per divorare se stesso.
L’ipertrofia dell’io non riesce a vedere l’altro come soggetto ma come oggetto . Oggetto a soddisfare i miei propri bisogni.
In psicologia si distinguono due tipi di rapporti:
- relazione io-tu (persona)
- relazione io-oggetto (quello o esso)
La relazione consiste nel modo in cui ci mettiamo in rapporto con l’interlocutore. Più la relazione è io-tu, cioè in contatto con l’altro, meno spazio c’è per l’abuso.
Come sottolinea il filosofo Buber, nella DA, la relazione non è tra IO – TU ( intersoggetività) ma IO – QUELLO . (rapporto strumentale).
La realtà soggettiva dell’Io-Tu si esprime nel dialogo, mentre il rapporto strumentale Io-Quello si radica nel monologo, che trasforma l’altro in Oggetto, come strumento di soddisfazione al proprio bisogno.
Nel piano del monologo l’altro – è utilizzato – diversamente dal piano del dialogo, dove l’altro è – incontrato-, riconosciuto e visto come essere singolare.
Quali sono le dinamiche psicologiche che entrano in gioco in questa relazione disturbata?
Per tentare di rispondere, mi rifaccio al fondatore della Gestalt, Fritz Perls, quando analizza l’emozione : “le emozioni producono cariche energetiche che mobilitano i modi e i mezzi per soddisfare i bisogni. Se un certo tipo di eccitazione non può trasformarsi nell’attività corrispondente ma subisce una stagnazione, allora abbiamo lo stato chiamato di angoscia, che è data da una eccessiva quantità di eccitazione che resta trattenuta, imbottigliata, soffocata”. Citerei questa metafora: come se, appena aperta una bottiglia di spumante, qualcuno la richiudesse immediatamente, senza lasciar che alcuna goccia di vino venga versata nel bicchiere.
La conseguenza di questo tipo di meccanismo, ci allontana da noi stessi, da quello che siamo in questo istante, sostituendo il movimento di AUTOREGOLAZIONE in quello di AUTOCONTROLLO, dove in questo ultimo è tutto l’organismo ad essere danneggiato.
Visione olistica
L’uomo è visto, all’interno di un’ottica olistica, come un organismo in una continua tensione dialettica, sempre e costantemente oscillante tra molteplici bisogni e spinte biologiche, psicologiche e sociali. I
Perls, prendendo il concetto di omeostasi inteso come una condizione in continuo mutamento, mai statica, afferma che “tutta la vita è caratterizzata da questo gioco costante di equilibrio e squilibrio all’interno dell’organismo” (Perls, 1973 p.17).
Ogni nuovo bisogno scuote l’equilibrio preesistente, per cui il processo omeostatico è sempre al lavoro. La malattia insorge quando il processo omeostatico fallisce e l’organismo rimane troppo a lungo in uno stato di squilibrio. Infatti la tendenza dell’organismo è quella di autoregolarsi disciplinando l’emergenza dei diversi bisogni attraverso un meccanismo di figura-sfondo. Il bisogno più importante diventa la figura in primo piano mentre gli altri bisogni recedono sullo sfondo.
Ipotesi
Potremmo ipotizzare che la vittima, non riconoscendo il suo intimo bisogno di meritarsi amore, reagisca al persecutore cercando di soddisfarlo in ogni sua esplicita ed implicita domanda di attenzione. Potremmo immaginare che in questa dinamica di sottomissione, s’installi nella vittima, un senso di piacere in vista di una futura ricompensa d’amore. Il persecutore, che non è in contatto con il suo bisogno profonda di essere visto e riconosciuto, dà libero sfogo alla pulsione di onnipotenza, esercitando un controllo pernicioso e a volte paranoico sul suo interlocutore.
Vediamo che in entrambi non è attivo l’allineamento all’emozione suggiacente cioè non c’è consapevolezza dello stato d’animo che li abita. Coscienza che condurrebbe a quella che Perls definisce come, processo di autoregolazione, processo attraverso il quale avviene l’integrazione di quelle parti soggiacenti di noi stessi che esigono di emergere per una vita soddisfacente.
E’ questo un punto molto importante in quanto l’orientamento verso una maggiore adesione a se stessi non viene inteso da Perls come una sorta di negazione della relazione con l’ambiente o con l’altro, quanto piuttosto un fondamentale prerequisito per poter contattare il mondo esterno sulla base di bisogni e modalità sentiti e riconosciuti come propri. Secondo Perls questo processo è possibile nel momento in cui il paziente è disposto a ricollocarsi al centro della propria esistenza, recuperando il potere su se stesso e sui propri comportamenti ivi compresi gli aspetti disarmonici e contraddittori: “se ti assumi la responsabilità di quello che stai facendo, del modo in cui produci i tuoi sintomi, del modo in cui produci la tua malattia, del modo in cui produci la tua esistenza – al momento stesso in cui entri in contatto con te stesso – allora ha inizio la crescita, ha inizio l’integrazione” (op. cit. 1969a p. 186).
Di che tipo è stata la relazione coi genitori?
Secondo una prospettiva psicodinamica la dipendenza affettiva affonda le sue radici nel rapporto coi genitori.
La persona dipendente, da bambino ha ricevuto in sostanza il messaggio: “non sei degno di essere amato”.
In questo clima familiare dove i bisogni emotivi e affettivi del bambino non sono importanti, spesso viene maltrattato fisicamente e psicologicamente, in virtù dei bisogni materiali.
L’emozioni infantili di rabbia, dolore, gioia, allegria, entusiasmo alla vita sonon stati poco importanti per i genitori . Il bisogno di muoversi, parlare, esprimersi ed esplorare il mondo esterno del bambino, è stato recepito dai genitori come qualcosa di disturbante, a volte inquietante per la tranquillità familiare.
L’espressioni più frequenti che sono arrivate alle sue orecchie sono state del tipo: “smettila, non correre, stai attento che cadi, non ti sporcare che ti ho appena cambiato, (il bambino viene vissuto dall’adulto come oggetto ), stai fermo, lo faccio io che tu tanto non ce la fai, adesso ho da fare, piantala di rompere, non ho tempo per i tuoi capricci, con te è sempre così, sono stanco, lasciami in pace, con te non si può mai stare tranquilli . ” Tutte queste reazioni di fastidio, magari, interferite da urla, qualche schiaffo, parolacce, insulti o ancora più subdola e ambigua, l’indifferenza, al bambino è risuonate come : “così come sono non vado bene, o quello che sono non interessa né a mamma né a papà, per tanto non merito il loro amore, quindi non ho valore”.
Questa mancanza di interesse è spesso accompagnata dal vuoto di quelle poche ma indispensabili regole educative, entro le quali il bambino si dovrebbe sentire rassicurato e sostenuto nel suo processo d’individuazione. (I No che aiutano a crescere). La triste realtà che il bambino subisce durante la sua infanzia, provoca ferite narcisistiche profonde che corrispondono nell’età adulta: “non ho fiducia in me, gli altri sono meglio di me”.
Crescendo quel bambino coprirà le sue ferite narcisistiche lasciandole però insanate
Tale background potrebbe trasformarsi come ottimo fertilizzante per un terreno psichico di sottomissione (controllo su me stesso) o di persecuzione, narcisista ( controllo sull’altro). Fra i due partner codipendenti non esiste vero Contatto, ma abuso reciproco. E’ un vincolo basato sul gioco di forze della manipolazione. L’uno, che conosce l’amore solo come totale abnegazione di se stesso, userà la gentilezza come arma di seduzione. Arma che poi le si rivolterà contro, perché va a nutrire nel persecutore ancora di più quelle forme di comportamento aggressive e violente già insite nella sua personalità. (Non posso amare chi è troppo gentile, chi non è autonomo ma dipendente da me). Nella vittima si amplierà la sensazione del proprio annientamento e sottovalutazione . (Senza l’altro non posso esistere, non sono nessuno).
La teoria della Gestalt insegna che la vita è alla “frontiera contatto”, al di fuori di questa c’è la sopravvivenza.
Che cosa può fare la terapia?
La funzione della terapia, per usare un’espressione di Hillman, è quella di fare anima, di aiutare il terapeuta e il paziente a diventare quello che sono, una reciproca cura dell’anima, un tentativo di restituire umanità e dignità alla nostra esistenza.
In tal senso la terapia della Gestalt, secondo Perls, non si interessa minimamente di fornire conforto, consolazioni, sicurezze, risposte esistenziali né tantomeno di aiutare il paziente ad essere più efficiente o a fare la “cosa giusta”, quanto di favorire una maggiore adesione e adattamento del paziente a se stesso, con i suoi limiti e possibilità, promuovendone la capacità di autosostenersi e di essere reale.
“Amo tutti gli incontri imperfetti di bersaglio e freccia che mancano il centro a sinistra e a destra, sopra e sotto. Amo tutti i tentativi che falliscono in mille modi diversi … amico non aver paura dei tuoi errori. Gli errori non sono peccati. Gli errori sono modi di fare qualcosa di diverso, forse nuovo in senso creativo. Amico non pentirti dei tuoi errori. Siine fiero. Hai avuto il coraggio di dare qualcosa di te stesso”
Fritz Perls